DOPO IL VIRUS UN’ECONOMIA CIRCOLARE

di Alessandro Franceschini

Quando, all’apice della pandemia causata dal Coronavirus, il sistema della produzione mondiale si è per la prima volta nella storia post-industriale del mondo «fermato», abbiamo avuto l’opportunità unica di guardare il nostro modello fondato sull’economia lineare con occhi disincantati. E di poter immaginare, con più facilità, altri possibili scenari.

L’economia così detta «lineare», ereditata dal sistema produttivo capitalistico-borghese, è stata il modello su cui è stato costruito il nostro stile di crescita e sviluppo negli ultimi due secoli. Essa deriva, com’è noto, da un’idea dello sviluppo privo di limiti, e si fonda sull’assunto che le risorse naturali usate come materie prime nel processo produttivo siano infinite e che il pianeta Terra possa avere un’altrettanta infinta capacità di assorbire e smaltire i rifiuti e gli scarti che quotidianamente il nostro sistema di consumo produce.

In realtà fin dai primi anni Settanta – pensiamo al documento, attualissimo, del Club di Roma, «I limiti dello sviluppo», del 1972 – abbiamo la consapevolezza scientifica che un siffatto sistema produttivo abbia il fiato «corto» sul «lungo» periodo. Oggi non abbiamo solo delle ipotesi di previsione, come allora, ma dei riscontri numerici impressionanti: ogni anno vengono prodotti nel mondo 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi. Nello steso periodo si producono 125 milioni di tonnellate di materie plastiche che nell’80% dei casi diventano rifiuti. In realtà, buona parte di questi «scarti» potrebbero essere nuovamente trasformati in «materie prime» grazie alla raccolta differenziata, oramai in grado di raggiungere quote significative in molte parti del mondo industrializzato, facilitando in questo modo l’implementazione di una nuova «economia circolare».

Le parole d’ordine di questo modello sono, per l’appunto, «ripara», «riusa» e «ricicla». E non si tratta di slogan ideologici: uno studio della Commissione europea ha dimostrato come la prevenzione dei rifiuti, la progettazione ecocompatibile e il riutilizzo dei materiali possano generare dei risparmi netti alle imprese per 600 milioni di euro, oltre che contenere le emissioni di gas serra nell’atmosfera per una percentuale tra il 2 e il 4 percento.

Reintrodurre i beni che hanno terminato il loro servizio all’interno del ciclo produttivo, per generare così ulteriore valore, è uno degli obiettivi a cui possiamo tendere con decisione nella fase di riavvio della macchina-mondo dopo la fine della grande pandemia. Perché non si tratta solo di una questione di opportunità economica: ridurre il consumo di materie prima significa risparmiare le emissioni di anidride carbonica necessarie alla loro estrazione e creare una «riserva» per il futuro, visto che la popolazione mondiale continua a crescere e con essa il bisogno di beni e prodotti.

Per raggiungere questi obiettivi occorre mettere in campo delle politiche di produzione molto rigorose, cha partano, tan-to per dire, dalla progettazione del prodotto stesso, che deve essere pensato già nella sua fase post-utilizzo (ad esempio, nella facilità nel separare le sue componenti fisiche); oppure, nell’utilizzo delle energie alternative a quelle fossili nel pro-cesso di produzione. Tutto questo può essere raggiunto grazie ad un atteggiamento eco-sistemico: ovvero un approccio at-tento a tutte le fasi della vita del prodotto che deve essere concepito, alla fine del suo utilizzo, come un valido sostituto delle materie prime: insomma un vero e proprio «carburante» in grado di entrare nuovamente nel ciclo di produzione, risparmiando così materie prima, energia, nuovi rifiuti: in una parola, risparmiando la cosa più preziosa che abbiamo: l’ambiente.

Pubblicato su Trentino di Martedì 30 giugno_2020

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